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Sono un traduttore di videogiochi e amo il mio lavoro. È un mestiere strano, a volte stressante, che mi regala ogni giorno nuovi stimoli. Non mi riferisco tanto agli slang, alle tendenze culturali e alle parole che mi fa scoprire. Tradurre mi obbliga a riflettere sul linguaggio, costringendomi a fare caso alle sfumature che nella vita di tutti i giorni vengono date per scontate. Ogni testo da tradurre non è altro che una lunga serie di problemi: alcuni hanno una soluzione esatta, dettata dalla grammatica e dal dizionario, mentre altri sono irrisolvibili.

A volte, la lingua di origine ha forme e modi di dire che non hanno un diretto corrispettivo in quella finale e il traduttore deve inventare, tradire, ma soprattutto capire. Il linguaggio è anche un eterno campo di battaglia culturale, che si evolve con una rapidità impressionante, in base ai cambiamenti della società. Le parole possono ferire le minoranze, affermare nuovi concetti, vincere elezioni. Sono una fra le armi più potenti dell’umanità, specie nell’era di internet, e per questo avverto la responsabilità di usarle con cognizione di causa.

Il mio esempio preferito dei grandi problemi della traduzione è il genere grammaticale, inteso come maschile e femminile. Partiamo da una semplice frase in inglese (la lingua di partenza del 90% delle traduzioni di videogiochi):

You are fantastic!

Facile, no?

NO!

Questa frase può significare:

  1. Sei fantastico! (singolare maschile)

  2. Sei fantastica! (singolare femminile)

  3. Siete fantastici! (plurale maschile)

  4. Siete fantastiche! (plurale femminile)

Traducendo un film, non ci sarebbero problemi, esattamente come nel mondo reale, perché vedendo i soggetti della conversazione, l’ambiguità dell’inglese sparisce. Peccato che la traduzione di videogiochi avvenga durante lo sviluppo dei medesimi, quando non si ha il lusso di poter controllare chi appaia sullo schermo. Inoltre, per la natura stessa di moltissimi giochi, a volte non è possibile determinare quale sarà il destinatario di una frase, neanche a gioco completo. Pensiamo a un open world, nel quale i personaggi hanno interi campionari di frasi che, a seconda dei casi, possono rivolgersi a maschi, femmine o gruppi (misti e non).

Per questo, nella mia carriera di traduttore, mi sono imbattuto molti anni fa in un pronome al centro di una fra le più accese battaglie linguistiche degli ultimi anni (tecnicamente l’uso si è riaffermato negli ultimi anni, ma è presente nella lingua inglese dal XIV secolo. È verso la fine del XIX secolo che l’uso viene condannato dai linguisti.): they/them. Alle elementari, mi hanno insegnato che era la terza persona plurale, l’equivalente di “essi” in italiano, ma recentemente si è affermato nell’inglese parlato e scritto anche come terza persona singolare neutra. In pratica, quando non c’è modo di sapere se si parla di un lui (he/him) o di una lei (she/her) si parla di they/them. In questo modo, nonostante le critiche dei puristi, l’inglese ha risolto brillantemente i casi di incertezza e ambiguità. Esempio:

Somebody forgot their backpack at the party.

Con quel “their”, questa frase evita di attribuire un genere predefinito alla persona che ha dimenticato il suo zaino alla festa. Comodo! L’uso di they/them è stato adottato anche dal movimento LGBT per le persone che non si riconoscono nel binarismo di genere. In pratica, they/them è uno strumento potentissimo, al servizio tanto della precisione linguistica quanto dell’inclusività del linguaggio.

Piccolo problema: l’italiano non ha nulla di simile a un pronome neutro. Anzi, è proprio l’opposto! Parliamo una lingua che connota il genere praticamente ovunque, dagli aggettivi ai verbi. Come se non bastasse, il genere predefinito, in caso di ambiguità o incertezza, è quello maschile. Per esempio:

two male kids > due bambini

two female kids > due bambine

one male kid and one female kid > due bambini

È un problema di traduzione non indifferente, che ci costringe spesso ad adottare giri di parole o a scegliere parole diverse per non connotare il genere laddove l’inglese mantiene l’ambiguità. Per me, come professionista, non è solo una questione di parità, ma anche di estetica: un personaggio che dà del maschio a una donna, in un videogioco, rompe l’illusione del realismo. Sono anni che io e i miei colleghi aggiriamo questo problema, in un modo o nell’altro. Vi siete mai chiesti perché uno degli insulti più comuni dei videogiochi è “pezzo di merda”? Esatto, perché “stronzo” e “bastardo” connotano il genere, mentre “pezzo di merda” no.

Qualche mese fa ho avuto il piacere di lavorare, insieme al team Gloc, alla traduzione di Neo Cab, un gioco ambientato in un futuro non troppo lontano, con ambientazione cyberpunk e distopica (e, ahimè, molto plausibile). La protagonista è Lina, una tassista della “gig economy”, autista di un ipotetico Uber del futuro, alle prese con una città in un momento di grande tumulto sociale. La storia viene narrata principalmente attraverso le conversazioni con i tanti clienti che salgono sulla sua auto. Quando lo studio di sviluppo ci ha fornito i materiali per la traduzione, ha specificato che un personaggio è “non-binary” e che Lina, con rispetto, usa il pronome they/them nella conversazione.

“Usate i pronomi neutri o l’equivalente della vostra lingua,” ci chiesero.

Ricordo la conversazione su Skype con il resto del team. Che richiesta ingenua! Sarebbe bello, ma non esiste niente di simile, nell’italiano. Cosa facciamo? La soluzione standard dell’italiano è l’uso del maschile… ma che tristezza. Era l’unica scelta ragionevole, ma ci sembrava anche pigra e poco ispirata. Avevamo l’occasione di fare qualcosa di diverso, ma anche il dovere di provare a rendere giustizia a una sfumatura molto importante del carattere della protagonista. Un dettaglio simile, in un gioco interamente incentrato sui dialoghi, non può essere ignorato. Inoltre, avevamo la scusa perfetta per sperimentare e innovare, data proprio dall’ambientazione cyberpunk. La lingua si evolve, quindi perché non proviamo a ipotizzare un pronome neutro in italiano, che in questo futuro ipotetico si è affermato ed è di uso comune? Sarà un po’ straniante, certo, ma la letteratura cyberpunk ha sempre sfruttato artifici simili. Invece di semplificare un aspetto importante di un personaggio, potevamo arricchire l’universo narrativo con un atto di “world building”.

Dopo aver interpellato lo studio di sviluppo, che si è detto entusiasta dell’idea, ci siamo messi al lavoro. Come lo facciamo, questo benedetto pronome neutro? Abbiamo iniziato a studiare la letteratura sul tema, in particolare le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini. Abbiamo anche analizzato le soluzioni al problema che si usano in molti ambiti dell’attivismo, come gli asterischi, le “x” e le “u”.

Siamo tutt* bellissim*.

Siamo tuttx bellissimx.

Siamo tuttu bellissimu.

Ho letto frasi simili sui cartelli e sui comunicati di molti centri sociali, ma ho sempre pensato che asterischi e affini non fossero tanto una soluzione reale, quanto un modo per sollevare il problema e avviare la discussione su un aspetto molto radicato nella nostra lingua. Per il nostro futuro cyberpunk, volevamo una soluzione più leggibile e pronunciabile, quindi abbiamo pensato alla schwa (ə), la vocale centrale media. Che suono ha? Quello della “a” finale di “mammeta” in napoletano (ma fa parte anche del dialetto piemontese, di quello ciociaro e di varie lingue romanze). Per pronunciarla, con un’approssimazione alla quale la storia della lingua non è per nulla estranea, è sufficiente fingere di non pronunciare l’ultima vocale di una parola.

La scelta della schwa era perfetta anche a livello di significante. La posizione centrale della lingua nella fonazione la rende quanto di più neutro si possa avere in ambito fonetico e il simbolo della “e” rovesciata, “ə”, può ricordare sia una “a” minuscola (la vocale femminile), sia una “o” incompleta (la vocale maschile). Risultato:

Siamo tuttə bellissimə.

Non è una soluzione perfetta, ma è se non altro plausibile, soprattutto nell’ottica di un futuro cyberpunk. L’assenza del simbolo “ə” sulle tastiere potrebbe essere risolta da un aggiornamento dei nostri smartphone e la relativa difficoltà della pronuncia è mitigata dalla necessità limitata di usare i neutri nel parlato. Il più grande bisogno di alternative neutre è proprio nella lingua scritta, in particolar modo nelle comunicazioni pubbliche, negli annunci e nei comunicati. Abbiamo sottoposto il problema ad amiche e amici nella comunità LGBT, per accertarci che non ci fossero sfuggite problematiche gravi, e poi abbiamo inviato la nostra traduzione allo studio di sviluppo. Il gioco è uscito, contiene qualche schwa e nessuno si è lamentato della nostra proposta per una lingua futura più inclusiva.

Abbiamo impiegato una settimana per fare il lavoro che avremmo potuto sbrigare in una mattinata ma siamo felici del risultato. Tradurre non vuol dire semplicemente tradurre, è un lavoro creativo che a volte può persino essere sovversivo. Chiudo il discorso con le parole di Alma Sabatini, che riassumono tutto il senso dell’operazione: